Fine del capitalismo o distopie alla Ayn Rand? L'Antropocene sarà quello della cli-fi o degli ecomodernisti? E cosa sono xenofemminismo e additivismo 3D? Dopo dieci anni di nostalgie, torniamo a immaginare il futuro.
Poche settimane fa, in un giorno di quella che secondo i climatologi è stata l’estate più calda di sempre, e mentre con sospetta leggerezza ci informavano che il pianeta aveva esaurito le risorse per l’anno in corso, sull’Independent veniva annunciato: “Mamma robot assembla bambini [builds babies] capaci di evolversi da soli”.Veniva poi spiegato che la “mamma robot” in realtà altro non era che una specie di braccio meccanico costruito dai ricercatori dell’Università di Cambridge. Questo braccio meccanico però, non solo era in grado di assemblare dei piccoli suoi simili, ma di stabilire – osservandone i comportamenti – quali fossero i tratti più consoni e funzionali alla progenie successiva. In poche parole: un processo di evoluzione e selezione naturale che giustificava l’assai suggestivo titolo dato dagli scienziati inglesi alla propria ricerca: On the origin of (robot) species.
Nonostante i toni enfatici del lancio, non è stata quella che si dice una notizia da prima pagina: io per dire mi ci sono imbattuto più o meno per caso, allertato dai tweet di Living in the Future, una rivista (molto bella) di “science fiction and future-oriented art”. E sapete cosa? Non è una notizia che mi abbia sconvolto granché.
Perché suvvia: nello stesso momento in cui leggevo delle ricerche in quel di Cambridge, per le strade della California gironzolavano automobili che si guadavano da sole; sempre in California proseguivano i preparativi per l’Hyperloop, il fantomatico treno che se mai arriverà in Italia “collegherà Roma e Milano in venticinque minuti”; alla Ohio State University gli scienziati promettono di produrre cervelli umani in laboratorio; intanto dei buongustai spagnoli hanno pensato una specie di sintetizzatore di cibo à la Star Trek chiamato Foodimi (a dire il vero, una banalissima stampante 3D “culinariamente modificata”); e già che di Star Trek si parla, l’Universal Translator che nella serie TV l’umanità conoscerà solo nel 2151, è già una realtà targata Skype.
E io mi dovrei stupire che una “mamma robot” sappia partorire dei piccoli e da questi stabilire cos’è meglio per il futuro della sua specie? E che sarà mai? Per quanto ne capisco io, anzi che non c’erano arrivati prima.
Siamo nel pieno di una novella Age of Wonder in cui le invenzioni che la fantascienza proiettava avanti di secoli interi, sono già tra noi. Solo che... non so, manca il wonder. Perlomeno, questa è stata la mia sensazione fine a non troppo tempo fa.
Analisti e commentatori ci hanno insegnato che viviamo nell’era più tecnologica della storia. Ma che dico: viviamo direttamente nel futuro (Living in the Future, appunto), e a sentire i più entusiasti siamo nel pieno di una novella Age of Wonder in cui le invenzioni che la fantascienza proiettava avanti di secoli interi, sono già tra noi. Solo che… non so, manca il wonder. Non tanto perché diamo per scontate meraviglie che una volta avrebbero scatenato fremiti di impazienza e aspettative incontrollate; piuttosto, per essere un’epoca così spudoratamente futuribile, l’impressione è proprio che scarseggi il futuro. Che questa entità al tempo stesso misurabile e astratta – “ciò che deve ancora avvenire” – sia stata tradita da un eterno presente particolarmente a corto di immaginazione. Perlomeno, questa è stata la mia sensazione fine a non troppo tempo fa – e non solo la mia, per quel che può valere.
Intendiamoci: che le narrazioni cosiddette “ufficiali” continuino ad abusare del concetto di futuro, non sfugge nemmeno al sottoscritto. Addirittura, nel nostro paese si è imposta una retorica secondo la quale tutto ciò che è passato o peggio ancora vecchio, è il Male. Compresi pure i vecchi in senso anagrafico, quelli diciamo dai 65 anni in su, biechi usurpatori di ricchezze che mai più conosceremo e che quindi, se capisco bene, dovremmo spedire direttamente in un gulag.
Solo che, concedetemelo: quel futuro lì è un futuro triste. Cieco, addirittura. Non è manco futuro, suvvia: e non solo perché la retorica su cui fonda è essa stessa vecchia (in Italia ci saremo pure arrivati ora, ma altrove…), quanto perché a uscirne non è nulla più che un upgrade del presente. Un modesto, mediocre e pure un po’ ottuso aggiornamento di quello che è già.
La tarda modernità, per il sociologo Hartmut Rosa , più che del futuro è il tempo dell’accelerazione: un termine che detto tra noi ha preso a circolare con una certa insistenza, sebbene con sfumature diverse e in alcuni casi anche contrastanti.
Spogliato del sensazionalismo hi-tech, del trasporto rottamatore e dell’ottimismo coatto, il futuro “ufficiale” non suggerisce altra aspirazione che ottimizzare, semplificare e velocizzare processi che governano le nostre esistenze adesso, e che nonostante gli (eufemismo) scarsi risultati ottenuti, vengono dati per immutabili e incontrovertibili. Il sociologo Hartmut Rosa parlerebbe di “stasi frenetica”: “Benché nulla rimanga come è, nulla di essenziale si modifica più: dietro il paravento ricco di colore si cela soltanto il ritorno dell’eternamente uguale”. La tarda modernità, per lo studioso tedesco, più che del futuro è il tempo dell’accelerazione: un termine che detto tra noi ha preso a circolare con una certa insistenza, sebbene con sfumature diverse e in alcuni casi anche contrastanti.
Se invece per futuro intendiamo un tempo diverso e perché no alternativo a quello presente, lo scarto emancipatore da quello che è già, o meglio ancora – per dirla con Ursula K. Le Guin – “un modo di pensare alla realtà, un metodo”, non è evidentemente alle narrazioni del Regime dell’Evidenza che dobbiamo rivolgerci. Lì tuttalpiù sapranno resocontare con la consueta dovizia di particolari che presto potremo comunicare in eschimese con un inuit del Nunavut semplicemente collegando un elettrodo sulla tempia: guadagneremo in efficienza e velocità, evviva! Ma quello che un gesto del genere può significare, le sue potenzialità inespresse, il mondo che potrebbe essere e che ancora non è, be’, quella è un’altra cosa. È il futuro, appunto.
Scomparsa (e ritorno) del futuro
Per buona parte degli anni 2000, la scomparsa del futuro è stata un’ossessione del mondo delle arti, della cultura, e dei linguaggi che per decenni si sono dati come imperativo la composizione di rotte ignote su mappe ancora da cartografare. Il Ventunesimo secolo si sarebbe dovuto aprire al trionfale rimbombo di timpani à la Strauss mentre ottimisti e spericolati gettavamo lo sguardo in direzione dell’ignoto, pronti alla più audace fuga in avanti nell’intera storia del genere umano. Grandi visioni e grandi utopie erano lì ad attenderci, nuove tecnologie erano intervenute ad aprire squarci che nemmeno sospettavamo: il futuro, ci aveva spiegato William Gibson, “è già qui, solo che è distribuito male”. Ma bastava sapere dove cercare e voilà, eccolo finalmente a portata di mano.
E invece: se c’è stata una tendenza dominante per quasi tutti gli anni Zero e buona parte dei primi anni Dieci, è stata una pervicace e preoccupante inclinazione a volgere lo sguardo indietro. Quantomeno in termini di riferimenti e immaginario condiviso, mettiamola così. Ci sarà un motivo se il termine che più di tutti è servito a descrivere la temperie del dopo ’900, è nostalgia.
Steven Heller, uno dei più importanti art director e storici del graphic design, notava nel 2010: “Nel diciannovesimo secolo la nostalgia era una malattia. Una forma di malinconia, la tensione per un un passato che probabilmente non era mai esistito. Oggi invece la nostalgia è uno strumento di marketing di successo [che funziona come] droga, tranquillizzante, e stimolante”. In un altro intervento dello stesso anno, Heller sottolineava come la prima vittima della nostalgia imperante, fosse proprio la nostra idea di futuro: “In passato il futuro appariva molto più luminoso di quanto ci appare ora – e anche più futuristico (…) C’era un senso di meraviglia che curiosamente oggi non esiste più. Il futuro è diventato piatto (bland)”.
Era difficile dargli torto, e non solo nel campo del graphic design. L’ex fabbrica dei sogni di Hollywood annaspava in un guazzabuglio di sequel, remake e franchise, i gruppi musicali scimmiottavano suoni, pose e addirittura vestititi di venti e trent’anni prima, e di lì a breve sarebbe arrivato Simon Reynolds a ribattezzare Retromania il clima che imperterrito sembrava informare una fetta consistente (diciamo pure maggioritaria) della solitamente vivace cultura pop.
Il citazionismo, il riciclo creativo di linguaggi retrò, i pastiche temporali che furono la cifra dell’estetica postmodern, erano diventati meccanismi inconsci, presenze sottili e infestanti, fantasmi che tirannici aleggiavano sul presente col loro carico di miraggi passati: hauntology, per riprendere un altro termine (di origine derridiana) che sempre Reynolds contribuì a rendere popolare.
In realtà, il primo ad applicare il concetto di hauntology alle forme e agli immaginari della cultura (anche) pop, fu il critico inglese Mark Fisher, ai tempi noto per il suo blog K-Punk e collaboratore di testate come Frieze, il Guardian e The Wire.
Mark Fisher dipinge il ritratto di un’era che rinunciando al futuro scivola nell’accettazione acritica dell’esistente, e l’unico dominio plausibile diventa quello del There Is No Alternative.
Nell’oretta o poco più che ci riservò, Fisher dipinse il ritratto – a tinte che più fosche non si può – di un’era che rinunciando al futuro scivolava nell’accettazione acritica dell’esistente, e l’unico dominio plausibile diventava quello di uno slogan molto in auge già trent’anni fa e da allora impostosi come dogma: There Is No Alternative. Le disfunzioni, le disparità, finanche le ingiustizie del presente potranno tuttalpiù essere corrette, aggiustate, qua e là migliorate: ma mai messe in discussione, né tantomeno sovvertite. Addio altri mondi possibili! Addio fantasie a venire, addio avveniristiche chimere da inseguire, addio futuro! Abbandonammo l’incontro mesti e incupiti, e sentendoci vagamente in colpa per esserci intrattenuti anche noi con le patine vintage-retrò di robe tipo Instagram e Hipstamatic.
Ghosts of My Life venne infine pubblicato dalle edizioni Zero Books nel maggio dello scorso anno. Da allora sono passati pochi mesi appena, eppure nel frattempo è come se l’aria fosse cambiata – almeno io ne respiro una diversa, credo. Dopo un quindicennio di ritirata nella confortevole letargia del “ciò che avrebbe potuto essere ma non è”, l’imperativo è diventato: “torniamo a guardare avanti”. Azzardiamo nuove visioni, nuovi desideri, nuove utopie. L’alternativa c’è, o se anche non c’è ancora, tanto vale immaginarla. Il 2015 è stato davvero l’anno del ritorno al futuro. E non perché è l’anno in cui si ambienta la seconda parte della trilogia firmata Robert Zemeckis e con protagonista Michael J. Fox/Marty McFly – non solo per quello, almeno.
Per una fantascienza dell’Antropocene
Tra i vari temi sollevati da Mark Fisher nell’intervista su Ghosts of My Life, c’era lo stato in cui versava il genere narrativo futuribile per definizione: la fantascienza. La cara vecchia science fiction, sosteneva il critico inglese, aveva smesso di popolare sogni, aspirazioni e repertori del possibile. Un po’ la colpa – se di colpa si può parlare – era nostra: “ci siamo dimenticati delle grandi visioni che la fantascienza applicava alla tecnologia”, ci disse Fisher. “Una volta discutevamo di terraforming, di trasformare interi pianeti, di alterare i sistemi solari… E adesso siamo passati a discutere di come migliorare il nostro accesso a internet: a me sembra un passo indietro, no?”.
Ma a monte c’era anche una difficoltà tutta interna all’immaginario fantascientifico in quanto tale, divenuto esso stesso nostalgico dopo la tabula rasa dell’ultima grande rivoluzione sci-fi: il cyberpunk. “Siamo ancora a Blade Runner, alle città distopiche, a William Gibson”, borbottò un rassegnato Fisher tra i corridoi della John Cabot. “Persino Matrix, con la sua idea di società totalmente simulata, non è riuscito ad aggiornare quel tipo di visione”.
Se pensiamo che Mad Max – Fury Road, il più fortunato blockbuster sci-fi dell’anno, altro non è che l’ultimo episodio di una saga cominciata trentasei anni fa, viene facile dargli ragione. Ed è senza dubbio vero che, se dal cinema passiamo alla narrativa, negli ultimi tre decenni nessun titolo “di genere” è riuscito a eguagliare in impatto una cosa come Neuromante, sul serio uno dei romanzi che più hanno plasmato la nostra stessa percezione del reale e all’interno del quale, viene ancora da pensare, tuttora sembra di vivere.
Il filone della fantascienza che senza dubbio ha suscitato più interesse, è la cosiddetta climate fiction o cli-fi; e cioè quel tipo di narrativa distopica che ambienta le sue storie in un mondo squassato da cambiamenti climatici.
Se però restiamo all’interno del genere nella sua versione più consapevole e (perdonatemi) “pura”, è effettivamente difficile stabilire a quali caratteri corrisponda la fantascienza dei 2000. Prendiamo alcuni dei titoli recenti più celebrati nel mercato anglofono, che imperterrito resta il riferimento principale: si va dalla space opera con venature politiche di Ann Leckie e del suo apprezzatissimo Ancillary Justice, alle distopie eco-apocalittiche di Jeff VanderMeer e della sua Trilogia dell’Area X, passando per l’inconsueto ottimismo di un Alastair Reynolds che in Blue Remembered Earth ipotizza un universo in cui l’umanità è finalmente riuscita a venire a capo dei disastri da lei stessa prodotti, l’Africa è una superpotenza mondiale, e gli individui hanno infine abbracciato una spregiudicata filosofia transumanista che gli permette di venire a capo di limiti genetici e biologici. Per tornare alle perplessità di Fisher, non è roba che può essere accusata di aver perso il gusto per la “grande visione”.
Ma il filone che senza dubbio ha suscitato più interesse, è la cosiddetta climate fiction o cli-fi; e cioè quel tipo di narrativa distopica che ambienta le sue storie in un mondo squassato da cambiamenti climatici estremi, irreversibili e chiaramente poco rassicuranti. È un filone che, come è stato fatto notare, risale indietro fino a Jules Verne, ma è altresì evidente che gli autori cli-fi rispondano a dilemmi parecchio diversi da quelli che pure potevano preoccupare l’autore di Ventimila leghe sotto i mari: nemmeno un tipo particolarmente visionario come Verne, era in grado di prevedere le catastrofi ecologiche, demografiche e geopolitiche che, senza andare troppo in là con la fantasia, hanno segnato l’estate appena passata.
E forse non è un caso che proprio quest’estate di climate fiction si sia tornati a parlare con una certa enfasi, grazie a una serie di lunghi articoli usciti su testate come Wired, The Atlantic, il solito Guardian, e soprattutto grazie alla versione aggiornata – pubblicata a luglio su Medium e poi rilanciata dall’Independent – di It’s not climate change – It’s everything change, sorta di saggio-profezia in cui la scrittrice Margaret Atwood annuncia che, per quel fragile pianeta Goldilocks chiamato Terra, il tempo sembra proprio che stia per scadere.
D’altronde, la narrativa cli-fi sembra spontaneamente incrociare i propri temi con uno dei più densi dibattiti nel campo delle scienze ambientali: quello sull’Antropocene. Il termine, in uso già negli anni Sessanta e rilanciato da Paul Crutzen ed Eugene F. Stoermer nel 2000, indica un pianeta i cui equilibri sono stati talmente alterati dall’intervento umano, da essere entrato a tutti gli effetti in un’era geologica nuova, distinta e diversa dall’Olocene in cui ancora supponevamo di vivere.
Nell’ultimo biennio circa, il confronto sull’Antropocene si è fatto improvvisamente accesissimo, non solo in ambito scientifico ma più genericamente culturale. Certo, c’è qualche controversia su quando l’Antropocene sia iniziato (con l’era atomica? Con la rivoluzione industriale? Con le rotte commerciali del ’500? Con la nascita dell’agricoltura?), nonché sullo stesso nome da applicare all’era geologica in questione (non sarebbe più corretto Capitalocene? O forse Atomicocene? E perché non Cthulucene, secondo la provocatoria interpretazione di Donna Haraway?). E poi, c’è l’inevitabile scontro su quali siano i destini dell’Antropocene stesso: si va dagli oscuri presagi dei teorici della decrescita allo sfrontato ottimismo del criticatissimo The Ecomodernist Manifesto. Per un riassunto su quali siano le posizioni a riguardo, vi rimando al bell’articolo firmato da Rory Rowan per e-Flux.
«Dimenticatevi Madre Natura!», esortava un articolo apparso sul New Scientist nel 2011; «Questo mondo l’abbiamo fatto noi».
Il manifesto del genere però (per me, il Neuromante in sedicesimo del nuovo millennio) è forse La ragazza meccanica di Paolo Bacigalupi, uscito negli USA nel 2009. Nel romanzo, l’ambiguo scienziato (o generipper) Gibbons, fornisce quella che possiamo prendere come un’efficace descrizione dell’Antropocene avanzato:
“L’ecosistema si è sgretolato la prima volta che l’uomo è andato a pesca. Quando abbiamo acceso i primi falò nelle sterminate savane dell’Africa. Abbiamo solo accelerato il processo. La catena alimentare (…) è già storia vecchia, niente altro che nostalgia (…). Noi siamo la natura. Ogni nostra azione è natura, ogni sforzo biologico lo è. Siamo ciò che siamo e il mondo è nostro. Siamo i suoi dèi”.
Sono parole che curiosamente ricordano da vicino non pochi argomenti dei cosiddetti ecomodernisti, i fautori cioè dell’Antropocene “buono”: “Dimenticatevi Madre Natura!”, esortava un articolo apparso sul New Scientist nel 2011; “Questo mondo l’abbiamo fatto noi”. Autore dell’intervento era Erle C. Ellis, uno dei nomi di riferimento del Breakthrough Institute, il think tank a cui si deve il sopracitato The Ecomodernist Manifesto uscito quest’anno; per Ellis e i suoi seguaci, non c’è motivo di preoccuparsi se la nuova era geologica plasmata dall’uomo versi perennemente sull’orlo dell’apocalisse finale: ci penseranno le nuove tecnologie e una più spiccata “sensibilità ambientalista” delle elite mondiali a rendere il pianeta più ospitale che mai.
Di nuovo, col tipico pragmatismo del There Is No Alternative, a non essere messi in discussione sono i rapporti – economici, politici, sociali – che pure a un passo dall’apocalisse ci hanno portato: le cose si… sistemeranno da sole, ecco. Viene da chiedersi se sia a Ellis e soci che si rivolge Margaret Atwood quando in It’s not climate change rispolvera una delle più celebri massime del Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
La Thailandia in cui si ambienta La ragazza meccanica, di ecomodernista non ha però nulla: al contrario, è una nazione devastata non solo da calamità energetiche e ambientali, ma da una lunga fila di fenomeni che sinistramente sembrano contrassegnare l’Antropocene tanto quanto il clima torrido specchio del riscaldamento globale: migrazioni di massa, fondamentalismi religiosi, segregazione etnica, diseguaglianza sociale. Tecnologicamente parlando, non sembra nemmeno un posto granché avveniristico: i computer vengono azionati a pedali e l’energia viene prodotta da enormi elefanti geneticamente modificati. Da questo punto di vista, saremmo insomma agli antipodi delle utopie hi-tech care a un Alastair Reynolds, e il romanzo sembrerebbe semmai aggiornare i tipici ingredienti di quell’estetica neoprimitivista inaugurata negli anni Settanta da pellicole come lo stesso Mad Max.
E invece, come d’altronde il titolo lascia intuire, Bacigalupi introduce sottotraccia un altro dei temi che con sempre maggiore insistenza vanno popolando l’immaginario scaturito dal rapporto tra uomo e tecnologia: per dirla coi ricercatori dell’Università di Cambridge, “l’origine di una nuova specie” totalmente artificiale, i cui comportamenti potrebbero un giorno eguagliare e superare in efficienza quelli di noi essere umani – e potenzialmente annientarci.
Il nostro habitat è cambiato. Se vogliamo restare in cima alla catena alimentare, dovremmo evolverci anche noi. Oppure ci rifiuteremo, e spariremo come i dinosauri.
“Voi [gli esseri umani ‘normali’, ndr] morirete adesso perché siete bloccati nel passato. Al giorno d’oggi dovremmo essere tutti meccanici. È più semplice costruire una persona immune dalla micoruggine che proteggere una versione precedente dell’essere umano. Tra una generazione, potremmo essere tutti bene attrezzati per il nostro nuovo habitat (…) Eppure la gente si rifiuta di adattarsi. Vi aggrappate a un’idea di umanità che si è evoluta in accordo naturale nel corso dei millenni, la stessa con cui voi ora, in modo perverso, rifiutate di andare al passo”.
Poco dopo, Gibbons è ancora più esplicito: “Il nostro habitat è cambiato. Se vogliamo restare in cima alla catena alimentare, dovremmo evolverci anche noi. Oppure ci rifiuteremo, e spariremo come i dinosauri”.
Il destino dell’uomo è insomma segnato: adeguarsi al punto di riconsiderare l’essenza stessa del genere umano. Oppure lasciare che a prendere il nostro posto sia una nuova specie.
Come in R.U.R. di Karel Čapek, l’opera del 1920 in cui per la prima volta apparve il termine robot. O come nel film che nel 2015 ha di nuovo portato critici e spettatori a rispolverare l’espressione “singolarità tecnologica”: Ex Machina di Alex Garland. Con tutti i suoi difetti, una pellicola che dice del futuro (e del presente) assai più di qualsivoglia Mad Max.
Singolarità subito!
A pensarci bene, non c’è niente che ci dica che Ex Machina sia un film di fantascienza: le vicende narrate dalla pellicola di Alex Garland potrebbero tranquillamente essersi già svolte, e magari in questo momento c’è un’intelligenza artificiale che solitaria si aggira tra noi, progettando in silenzio la sua vendetta sul genere umano.
In fondo, che ne sappiamo? Ava, la protagonista del film, è il parto di Nathan, inventore di un motore di ricerca potentissimo e palesemente ispirato a Google. Chiaro, questo Nathan nel film è un tipo strano, intelligentissimo, e fin troppo ambizioso: fabbricare androidi senzienti nel chiuso della propria villetta in mezzo ai boschi, non è proprio roba da tutti. Ma questo indomito afflato prometeico, è una caratteristica di tutti i nuovi magnati della net economy: tech titans, li ha ribattezzati la stampa americana, e il riferimento alle poderose figure della mitologia greca divenute sinonimo di qualsiasi atteggiamento superomista, sembra per una volta non accidentale.
A superare i limiti biologici dell’uomo, i tech titans della Silicon Valley ci stanno pensando da tempo, come raccontato lo scorso marzo da un molto discusso speciale apparso su Newsweek. Nell’articolo di copertina, sotto il titolo “La Silicon Valley sta cercando di rendere gli essere umani immortali”, Betsy Isaacson riassumeva in poche righe quali fossero le aspettative della tecno-elite globale: “Peter Thiel, il miliardario cofondatore di PayPal, conta di vivere fino a 120 anni. A paragone di altri tech-miliardari, non sembra particolarmente ambizioso. Dmitry Itskov, il ‘padrino’ dell’Internet russa, afferma che il suo obiettivo è di arrivare a 10.000 anni; Larry Ellison, il cofondatore di Oracle, trova che accettare l’idea di morire sia ‘incomprensibile’, e Sergey Brin, cofondatore di Google, spera un giorno di ‘curare la morte’”.
Sono tizi visionari, questi tech-titani. Vera gente “del futuro”, o quantomeno tra i pochi a tenere accesa la fiammella di quel sense of wonder che in altri tempi si produceva in viaggi intergalattici e missioni spaziali (tutta roba che pure ai tech-titani interessa, come sappiamo: vedi i piani targati GAFA).
Più che al Prometeo che ruba il fuoco per donarlo agli umani e liberarli dalla schiavitù delle tenebre, i tech titano assomigliano a quella caricatura involontaria che è John Galt, il superuomo oggettivista immaginato da Ayn Rand.
L’interesse a cui guardano ai piani per costruire isole galleggianti autogovernate, dà un’idea di quale sia il loro modello di società ideale: un’utopia libertarian in cui i potenti della terra potranno infine ritrovarsi a discettare di big data e libero mercato, senza seccature quali tasse, leggi antitrust, privacy degli utenti, e ovviamente morte e malattie.
Più che al Prometeo che ruba il fuoco per donarlo agli umani e liberarli dalla schiavitù delle tenebre, assomigliano a quella caricatura involontaria che è John Galt, il superuomo “oggettivista” immaginato da Ayn Rand: una pessima scrittrice con una pessima fantasia, che pure è finita per diventare l’eroina sia degli eredi apocrifi della fu controcultura californiana, sia di quegli ex neocon stanchi di predicatori evangelici e infruttuose guerre ai quattro angoli del pianeta. Viene quasi da rimpiangere i tempi in cui il libro preferito di Henry Ford era Bambi.
A confronto degli audaci piani dei tech-titans reali, il Nathan di Ex Machina che ancora perde tempo con le intelligenze artificiali, sembra persino un po’ passé. La premessa comunque è la stessa: come Nathan aspira a farsi Dio inventando dal nulla una Neo Persona a cui trasmettere le informazioni ricavate dal suo motore di ricerca, così – ribadiva lo scorso aprile il Washington Post – “i fondatori di Google, Facebook, eBay, Napster e Netscape, stanno usando i loro miliardi per riscrivere l’agenda scientifica e trasformare la ricerca biomedica della nazione. Il loro obiettivo è impiegare i mezzi della tecnologia – chip, programmi software, algoritmi e big data già alla base della rivoluzione informazionale – per comprendere e aggiornare quella che considerano la più complicata tra le macchine: il corpo umano”.
Insomma: i mezzi o meglio ancora le informazioni ci sono già; adesso è il momento di farne un uso “creativo”, e finalmente trascendere le costrizioni del presente. La stessa singolarità tecnologica, non è percepita come dilemma etico o potenziale minaccia: è apertamente inseguita e, in alcuni casi, venerata come una religione. Questa perlomeno è la lettura che ne dà Jaron Lanier in Who Owns the Future, diventato da noi La dignità ai tempi di Internet e sequel del classico cyber-pessimista Tu non sei un gadget.
Futuri alieni: xenofemminismo, additivismo & co.
C’è un che di millenaristico in molte delle profezie che sembrano informare l’ethos della Silicon Valley. In una tardiva recensione proprio a Who Owns the Future uscita a maggio sulla Los Angeles Review of Books, il filosofo delle religioni Samuel Loncar spiegava: “la Silicon Valley può vantare una vibrante cultura religiosa, una teologia più o meno ortodossa, e una quantità di riti e istituzioni pensate per la sua casta sacerdotale”. Secondo questi sacerdoti, la tecnologia “ci condurrà all’aspirazione-base della metafisica e delle religioni tradizionali: l’unione col divino”. A uscirne è “una visione di crescente dematerializzazione, che enfatizza l’alterazione tecnologica e assieme l’emancipazione finale dalla nostra condizione corporea, e che punta alla nascita di un mondo senza frizioni”. Uno potrebbe tranquillamente chiosare: il paradiso.
Naturalmente, questa lettura ottimista, solare e molto “aynrandiana” del mondo prossimo venturo, vanta tanti seguaci quanti detrattori. Che i teorici della decrescita o gli alfieri del neolocalismo più o meno solidale restino inorriditi dalle tecno-profezie dei vari Thiel e soci, è prevedibile e anzi scontato. Ma esistono anche letture che, pur non rifiutando – e anzi abbracciando – l’enorme salto antropologico e filosofico annunciato dalla tencologia hi-tech, ne restituiscono una versione problematica, che all’utopia senza frizioni sostituisce l’esaltazione per la frattura, la complessità, lo strappo. Da eden pacificato per pochi eletti, il futuro diventa quindi il tempo di un conflitto dalle aspirazioni forse altrettanto utopistiche, ma tutto tranne che concilianti.
Per esempio: lo Xenofeminist Manifesto pubblicato quest’anno dal collettivo transnazionale Laboria Cuboniks assomiglia qua e là al negativo avariato del già citato Manifesto Ecomodernista; anche lo xenofemminismo rifiuta il concetto di una natura di per sé buona e saggia, ma per motivi che nulla hanno a che vedere con le magnifiche sorti del progresso: “Chiunque sia stato giudicato ‘innaturale’ in relazione alle norme biologiche dominanti, e chiunque abbia subito ingiustizie perpetrate in nome dell’ordine naturale, saprà che la glorificazione della ‘natura’ non ha nulla da offrire ai queer e ai trans che sono tra noi, ai diversamente abili, ma anche a chi ha subito discriminazioni per via di una gravidanza o per i doveri legati all’accudimento dei figli”.
Lo xenofemminismo è per l’abolizione del concetto di genere così come per quello di razza e classe. Può quindi essere letto come una risposta alle tendenze conformiste del cosiddetto neofemminismo, ma anche come aggiornamento e prosecuzione del Manifesto per una Politica Accelerazionista del 2013.
A sua volta, questa prospettiva non può che tradursi in un sovvertimento totale dell’ordine costituito: lo xenofemminismo è per l’abolizione del concetto di genere così come per quello di razza e classe. Può quindi essere letto come una risposta alle tendenze vieppiù conformiste del cosiddetto neofemminismo, ma anche come aggiornamento e prosecuzione dell’altro manifesto (di questi tempi, ne escono parecchi) che già nel 2013 riaffermava il potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie: il pluricitato Manifesto per una politica accelerazionista, a cui non a caso lo Xenofeminist Manifesto è stato immediatamente avvicinato.
A differenza di quello però, lo Xenofeminist Manifesto tradisce sfumature velatamente (e volutamente) paradossali, provocatorie, persino un po’ grottesche, a partire dallo slogan con cui si chiude (“Se la natura è ingiusta, cambia la natura!”) fino ad arrivare alla scelta degli strumenti attraverso cui invertire la rotta del presente: “Lo xenofemminismo fa propria l’alienazione come impulso per generare nuovi mondi (…) La costruzione della libertà implica non meno, ma più alienazione”. Il futuro, per Laboria Cuboniks, non deve essere soltanto più “giusto”: deve essere innanzitutto un “futuro alieno”. Se di millenarismo si può parlare, è un millenarismo acido, deforme, pure un po’ drogato. Altro che l’Atlantide aynrandiana cara ai tech-titani: semmai, viene più da pensare a una versione sci-fi/cyberfemminista di certi testi situazionisti à la Raoul Vaneigem, o alla solita Donna Haraway che per il suo Cthuluhcene auspica una “complessità” che è anche “infezione”.
Lo stesso registro lo troviamo, irrecuperabilmente esasperato, nell’ennesimo manifesto uscito nel 2015: quello dell’Additivismo 3D. Già nel primo paragrafo, a essere parodiato è uno dei più celebri manifesti della storia dell’arte, quello futurista: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della merda, della sporcizia e dei detriti”. In puro spirito marinettiano, gli additivisti inseguono un ideale post-umano al limite del pornografico; il feticismo tecnologico è nel loro caso un feticismo dichiaratamente erotico, che beato sguazza in un mare di perversioni e disinibita esaltazione per il deforme: “Non c’è nulla di più desiderabile per il genere umano che vedere più spesso l’unione fertile tra un uomo e una Macchina Analitica. Le nostre tecnologie sono gli organi sessuali della speculazione materiale. Qualsiasi tentativo di comprendere gli eventi è reso impossibile dal nostro antropomorfismo”.
Se lo xenofemminismo insegue un “futro alieno”, il 3D Additivist Manifesto invita a “un graduale risveglio della materia; l’emergere, in definitiva, di una nuova forma di vita”. Propone quindi di “forgiare l’anarchia, la rivolta e la malattia”, e di far nascere “il disordine dal suo scomparto digitale”. La grande metafora alla radice del progetto additivista, è la stampante 3D, che diventa strumento per “condensare l’immaginazione nella realtà materiale”: non tanto una macchina dei desideri, quanto una macchina per il desiderio.
Il manifesto si chiude con una vera e propria chiamata alle armi in cui i firmatari chiedono agli ipotetici fiancheggiatori “testi sull’Antropocene, il Chthulucene, il Plasticene”, progetti 3D di spionaggio industriale e strumenti di tortura, droni temporaneamente autonomi, virus per disattivare i sistemi DRM e introdurre “errori, difetti e fessure nelle stampanti 3D”, e poi ancora innesti cutanei, corna, esoscheletri, organi sessuali di specie diverse, e via di questo passo.
Hi-tech riot
Il 3D Additivist Manifesto è un tipico parto del mondo dell’arte; i suoi autori sono Morehshin Allahyari e Daniel Rourke, che coi loro toni stentorei sembrano riallacciarsi alla cara vecchia tradizione utopistica riassunta a suo tempo da Stewart Home in Assalto alla cultura. Al sottoscritto, il 3D Additivist Manifesto ha in effetti ridestato precise memorie anni Novanta: per linguaggio e contenuti, non siamo molto distanti dalle espressioni più “decadentiste” di certa cybercultura del periodo. In Italia, è un testo che sarebbe stato benissimo su una rivista come Torazine.
Ma è anche vero che il mondo dell’arte è quello in cui, negli ultimi anni, più è stato acceso il confronto sui temi che, in ultima analisi, informano tutte le utopie futuribili di cui si è detto finora. Fenomeni come la Post-Internet Art e prima ancora la New Aesthtetic, personaggi come Ryan Trecartin, Takeshi Murata, Jon Rafman o Petra Cortright, collettivi come Metahaven e DIS, hanno introdotto nell’altrimenti retromaniaco immaginario anni 2000 un sentimento antinostalgico e orgogliosamente “futuristico”, anche se in perenne bilico tra entusiasmi tecnofili e la distopia più cupa.
Ed è un sentimento che, una volta uscito dalle gallerie e dalle concettose dispute tra connoisseur, ha contagiato in maniera esplicita altri ambiti del panorama artistico anni Dieci. La musica in questo senso è un esempio fin troppo citato: solo qualche mese fa, in un articolo intitolato Appunti per una discografia accelerazionista, azzardavo la progressiva affermazione di una… mah, chiamiamola tendenza, che con sempre maggiore frequenza aveva preso a manifestarsi tra le pieghe del suono elettronico, e che il critico inglese Adam Harper aveva acutamente soprannominato “musica hi-tech”. Da allora, il fenomeno è come esploso, e non penso di sbagliare se dico che quello hi-tech è il suono del 2015, per quanto sia oramai diventato impossibile stabilire indirizzi dominanti in un panorama segmentato all’inverosimile come quello discografico.
Questo presunto zeitgeist culturale che alla vecchia Retromania sostituisce la spinta e lo stimolo verso il futuro, è ispirato a tendenze politico-accademiche che si contrappongono alle forze produttive del capitale.
Pochi di questi nomi diranno qualcosa a chi non segue i mille rivoli dell’underground, ma senz’altro la critica ha reagito all’esplosione hi-tech con malcelato entusiasmo: finalmente una musica “nuova” che – come sottolinea Tiny Mix Tapes recensendo l’ultimo Kuedo – riflette uno “zeitgeist culturale complesso” ammantato di “generico futurismo” e capace di manipolare gli stimoli del presente cibernetico.
La recensione di Tiny Mix Tapes punta poi a un altro tema ricorrente nella nuova estetica hi-tech, quello che per me è il più interessante: questo presunto “zeitgeist culturale” che alla vecchia Retromania sostituisce la spinta e lo stimolo verso il futuro, è ispirato a “tendenze politico-accademiche che si contrappongono alle forze produttive del capitale”.
Detta altrimenti: la musica dei nomi fin qui citati è una musica apertamente, orgogliosamente e risolutamente politica. Non militante, per carità: per linguaggio e contenuti, siamo distanti anni luce da un Billy Bragg che canta Bandiera Rossa. Ma devo dire la verità: sono rimasto sinceramente colpito dalla frequenza con cui questi musicisti ricorrono a una terminologia che si credeva caduta in disgrazia non solo tra gli apologeti (soprattutto quelli di sinistra) del There Is No Alternative, ma anche nei circuiti della musica giovane e indipendente, specie nelle sue varianti più, ehm, hip.
Per buona parte degli anni 2000, le musiche che meglio hanno descritto la temperie del panorama indie, alternativo o comunque lo vogliate chiamare, si sono fatte un punto d’onore nel rigettare qualsiasi sospetto anche lontanamente engagé. Ironia, sentimentalismo bo-bo, sardonico distacco e ovviamente abbondanti dosi di nostalgia, sono stati i linguaggi dominanti di un mondo che pure, almeno in passato, non di rado aveva flirtato con le frange più radicali del pensiero critico.
E invece, musicisti come Holly Herndon o Jam City non si fanno remore a tirare in ballo concetti e prese di posizione che solo pochi anni fa avremmo derubricato a rigurgiti fuori tempo massimo di retoriche ormai estinte. La frequenza con cui nelle loro dichiarazioni compaiono termini come “capitalismo” e “neoliberismo” (quest’ultimo, motivo di automatica derisione presso i campioni della narrazione ufficiale) li fa assomigliare più a degli aspiranti media activists che a dei tizi che passano il tempo a smanettare coi suoni sul laptop. Altri, come Elysia Crampton, legano la propria ricerca a preoccupazioni di stampo post-coloniale. Il giovanissimo sudafricano Angel-Ho ragiona anche lui su razza, genere e – di nuovo – capitalismo globale. Il più glamour di tutti, il venezuelano Arca, è un concentrato di disturbanti istantanee post-umane in chiave transgender (avendo intitolato il suo primo album Xen, viene pure il sospetto che le xenofemministe si siano ispirate a lui). E potrei continuare.
Mettetela come vi pare, ma che le musiche più innovative e “futuristiche” degli ultimi anni si accompagnino a un plateale ritorno d’interesse per i Grandi Temi, per di più su posizioni così scopertamente conflittuali, è quantomeno una curiosità. E perché no un segnale, credo io.
Fine del capitalismo?
Questa politicizzazione del futuro dopo anni di disimpegno nostalgico, non è evidentemente un fenomeno limitato alla sola sfera delle musiche elettroniche o indipendenti. Lo diceva la recensione dell’ultimo Kuedo su Tiny Mix Tapes: dietro c’è tutta una… ma sì, una corrente, un contesto culturale, insomma uno zeitgeist.
Agli inizi di settembre, si è svolto a Brighton quello che la webzine Fact ha definito “uno dei festival più insoliti dell’anno”: protagonisti di The Long Progress Bar erano musicisti come, oltre agli immancabili Holly Herndon e Jam City, il norvegese TCF; assieme a loro però, il programma prevedeva un’agenda fitta di incontri, screening e workshop con ospiti provenienti dal mondo delle arti visive, del design e dei social studies. Tra loro, almeno un paio di i nomi che abbiamo già incontrato: il collettivo olandese Metahaven; e le xenofemministe Katrina Burch e Diann Bauer di Laboria Cuboniks. Ma soprattutto, principale ospite della manifestazione era Paul Mason, economics editor del canale televisivo Channel 4, e autore di uno dei più discussi bestseller della scorsa estate: PostCapitalism: A Guide to Our Future, finito recentemente anche sulla copertina del nostro Internazionale.
Era quasi inevitabile che sarebbe toccato proprio agli inglesi di immaginare strade altre a quello che il solito Mark Fisher ha definito Capitalist Realism: l’idea insomma che è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo.
Bene, la fine del capitalismo è invece esattamente l’assunto da cui sin dal titolo muove PostCapitalism. Riducendone il contenuto ai minimissimi termini, ed evitando di tirare in ballo onde di Kondratieff e citazioni che vanno da Shakespeare all’inevitabile Marx, Paul Mason ci spiega che la crisi cominciata nel 2008 annuncia non tanto l’esaurimento di un ciclo, quanto di un paradigma intero; cambiamenti climatici, invecchiamento della popolazione e rivolgimenti demografici stanno già operando in tal senso; ma fenomeni come l’eccesso di informazione (che impedisce ai mercati di formulare correttamente i prezzi), la crescente automazione (che riduce la quantità di ore di lavoro), e i processi collaborativi che esulano dalle leggi di domanda e offerta (tecnologie open source e via dicendo), rischiano di erodere le fondamenta di un sistema destinato a questo punto a scomparire come secoli addietro scomparì il fedualesimo. Più o meno, diciamo.
L’altra riflessione al centro del libro, è riassunta da un sottotitolo che più perentorio non si può: A Guide to Our Future. Come sarà quindi il mondo del futuro, quando il capitalismo non esiterà più, almeno per come lo conosciamo ora? Mason invita a “riscoprire l’utopia” a meno di non scivolare in un concretissimo incubo in cui, ai noti problemi energetici e di sovrappopolazione, si aggiungono quelli di una disparità sociale talmente estrema da far sembrare le parabole dickensiane ameni quadretti premoderni. Anche qui, riduco la ricetta del Project Zero masoniano ai suoi ingredienti-base: per come riassunto dall’autore in persona in una sua intervista a VICE, questo mira a “un sistema energetico a emissioni zero; la produzione di macchine, prodotti e sistemi senza costi marginali; e la riduzione dell’orario di lavoro che tenda il più possibile allo zero”.
Pur con qualche variante, è la stessa ricetta proposta da un altro libro, naturalmente sempre inglese, in uscita a ottobre per Verso: l’hanno scritto Nick Srnicek e Alex Williams, gli stessi del Manifesto per una Politica Accelerazionista, e si intitola – guarda un po’ – Inventing the Future.
Automazione totale, sviluppo senza limiti delle tecnologie, fine del lavoro, reddito base per tutti, diritto alla pigrizia: il risultato assomiglia molto a quello che l’inglese Aaron Bastani chiama Fully Automated Luxury Communism.
Principale obiettivo dei due autori, almeno nella prima parte, sono tutte quelle politiche “orizzontaliste” – comitati locali, chilometro zero, ritorno al territorio ecc – già messe all’indice nel Manifesto del 2013, e che hanno ridotto il pensiero di sinistra a presenza residuale ai margini della modernità – a meno che non consideriate di sinistra il proverbiale Capitalist Realism della Terza Via, si intende. Coerentemente con le parole d’ordine dell’accelerazionismo (parola che però in Inventing the Future non compare mai), Srnicek e Williams propongono invece non solo di non rifiutare, ma di accogliere a braccia aperte le potenzialità della tecnologia moderna, dirottandole ovviamente in chiave anticapitalista e postcapitalista assieme.
E quindi: automazione totale di tutte le mansioni che arrivati a questo punto possono essere svolte dalle macchine; sviluppo senza limiti delle tecnologie che già ora promettono l’affrancamento dalle leggi di mercato (stampanti 3D, sistemi open source, eccetera); riduzione e progressiva eliminazione dell’orario di lavoro; reddito base per tutti, in modo da poter perseguire i propri interessi privati senza il ricatto del tempo sottratto al denaro; diritto alla pigrizia, nel senso di emancipazione sia dalla vecchia “etica del lavoro” di stampo socialisteggiante, sia dalla sua controparte neolib, quella dell’individuo-imprenditore-di-se-stesso. Il risultato assomiglia molto a quello che un altro inglese, Aaron Bastani, ha felicemente riassunto nella formula Fully Automated Luxury Communism.
Inventing the Future è un testo che fa tabula rasa dei nostalgismi para-keynesiani, che ribadisce finalmente che la cosiddetta epoca d’oro del capitalismo non era un bel periodo, e che riporta all’ordine del giorno il sogno di una società libera dal lavoro.
Di sicuro però, Inventing the Future è un testo che fa tabula rasa di certi goffi nostalgismi para-keynesiani, che ribadisce finalmente che la cosiddetta epoca d’oro del capitalismo e delle socialdemocrazie occidentali non era un bel periodo, e che riporta all’ordine del giorno un sogno a dire il vero antico come quello di una società libera dal lavoro: un tema che d’altronde ha storicamente segnato una fetta consistente del pensiero critico soprattutto italiano, e che di colpo appare un’ipotesi se non altro ragionevole.
Nel senso, lo dice pure Larry Page di Google: in un’epoca di crescente automazione e progressivo invecchiamento della popolazione (e di jobless revoveries, perché no), quello che appare irrealistico è semmai pensare che da qui al 2050 staremo ancora a rivendicare il diritto di essere pagati per mansioni che robot, intelligenze artificiali, Neo Persone o chi per loro, riescono tranquillamente a svolgere per conto proprio, il tutto mentre l’età media degli individui sarà notevolmente aumentata (con conseguente eccedenza di forza lavoro e autentici rischi di “lotta di classe generazionale”).
E be’, arrivati a quel punto Page e quelli come lui potranno pure ritirarsi nelle loro isolette offshore, ma noialtri in qualche modo dovremo pur vivere. Ammesso nel 2050 esisteremo ancora, e che l’Antropocene non sia infine collassato sotto il peso di qualche cataclisma e/o disastro ecologico.
Ma anche su questo, Inventing the Future ha le idee chiare: una società postcapitalista ribalta i meccanismi di causa-effetto dell’impatto ambientale; libera dal lavoro, sarà anche una società più felice, perché ridurrà gli esiti di patologie tipicamente associate ai ritmi stressanti della produttività a tutti i costi.
Su una cosa sia Page che gli autori di Inventing the Future sembrano concordare: già oggi, il lavoro è perlopiù un fatto culturale, anziché una necessità. Secondo il fondatore di Google, “un sacco di gente non è felice se non ha qualcosa da fare”. Il problema, sempre secondo Page, è che “se pensiamo a quello di cui abbiamo bisogno – casa, sicurezza, educazione per i nostri figli – il totale di risorse e di lavoro da fare è parecchio piccolo. Credo sia meno dell’1%. L’idea che tutti debbano lavorare febbrilmente per venire incontro ai bisogni della gente, semplicemente non è vera”.
Diciamolo chiaramente: le convergenze tra l’utopia libertarian dei tech-titani e la postwork society di Inventing the Future, si esauriscono qui. Il futuro immaginato da una parte e dall’altra, è di radice diametralmente opposta: da una parte, una specie di tecnocrazia “illuminata”, genericamente progressista ma intrinsecamente tirannica, competitiva e orgogliosamente individualista; dall’altra, la sempiterna aspirazione a un mondo più equo, non-competitivo e, be’, giusto.
Il futuro insomma, è un campo di battaglia. E lo è già adesso, nel presente, possibile ultimo capitolo di un passato che mai più ritornerà.
Valerio Mattioli
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, scrive in giro. È anche metà del duo death surf Heroin In Tahiti.
Valerio Mattioli, caporedattore di PRISMO, scrive in giro. È anche metà del duo death surf Heroin In Tahiti.
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